Guerra scongelata |
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Lunedì 01 Agosto 2016 10:18 |
Ecco allora che se in quella che era chiamata piazza Lenin gli abitanti mettono in scena una piéce di quiete e fiducia nel futuro, dietro le quinte del Nagorno Karabakh, ben oltre l’apparenza mostrata sul proscenio di Stepanakert, ciò che invece si scopre è una guerra incessante, ritornata prepotente a infilarsi in ogni angolo della società, penetrata nell’intimo di ogni cittadino. Un conflitto totalizzante, rispetto al quale, la vita del singolo è oggi un’elegia imminente da inserirsi nelle pieghe di una tragedia che non vede vie d’uscita. ”C’è una storia che molti amano ripetere in Nagorno Karabakh. A un giornalista straniero che gli aveva chiesto di quanti soldati potesse disporre, il presidente della piccola repubblica secessionista Bako Sahakyan, avrebbe risposto: ”150.000 persone, tutta la popolazione del mio Paese”. In effetti dopo tanti anni la guerra, per gli abitanti di questa regione contesa, è divenuta come una seconda pelle”. È con queste parole che Simone Zoppellaro, giornalista e uno dei massimi conoscitori italiani della regione caucasica, apre il capitolo inerente al Nagorno Karabakh nel suo libro Armenia oggi. Drammi e sfide di una nazione vivente edito da Guerini e Associati. Ed è proprio una seconda pelle, una mimetica cucita addosso, quella che portano gli abitanti di questo territorio abituati a condividere il contingente tra tank e missili Grad, mine anti uomo e Ak-47. Per approfondire: Nagorno Karabakh: una doppia analisi La storia della terra caucasica é quella di un conflitto tra l’Armenia democratica e cristiana e l’Azerbaijan regime nelle mani della famiglia Aliyev dal ’69 e di fede islamica. La regione, con un’ ampia maggioranza di popolazione armena, era stata assegnata da Stalin all’Azerbaijan per creare una roccaforte della rivoluzione socialista nelle terre musulmane dell’impero sovietico. Coesistenza pacifica fino al 1988 tra le genti del Nagorno Karabakh, poi la popolazione incominciò a chiedere indipendenza e l’annessione con la Repubblica Armena. Baku da un lato a difendere il suo territorio, Yerevan dall’altro a sostenere il suo popolo, ed ecco che scoppiò la guerra che vide i volontari armeni trionfare contro le truppe azere nel 1994. Il bilancio finale fu di oltre 30mila morti, un accordo di pace mai siglato e un cessate il fuoco mai rispettato. Vent’anni dopo infatti nelle trincee e nei camminamenti tra Azerbaijan e Nagorno Karabakh ancora insiste il conflitto, e la ripresa più dura delle violenza dal ’94 ad oggi si è verificata proprio il 4 aprile 2016 con un’invasione azera a cui hanno fatto seguito quattro giorni di scontri, un’allerta che perdura ancor oggi e il timore tangibile che col domani, una concreta guerra, possa ritornare a infiammare la terra caucasica. Per approfondire: Nagorno Karabakh: che posta in gioco? La strada che conduce da Stepanakert alla prima linea è una via crucis della simbologia della violenza. Come corone di un rosario, tra i campi dorati e le verdi colline, si susseguono con impietosa ritualità macerie e blindati. ”Stiamo andando a Talish, è lì che c’è stata la prima avanzata azera ad aprile. Hanno assaltato il villaggio, i civili sono stati evacuati altri però sono stati uccisi e mutilati. Gli azeri hanno attaccato le postazioni militari e i villaggi in piena notte, e al loro attacco ha fatto seguito la nostra reazione”. A parlare, a bordo di una vecchia Lada mentre tiene a portata di mano un Ak47, è un ufficiale dei servizi segreti che, mentre la vettura si arrampica verso i paesi coinvolti negli scontri e verso le trincee, prosegue raccontando: ”Hanno cercato di testare il loro potenziale bellico. Hanno utilizzato cluster bombs, artiglieria da 152mm e persino droni kamikaze di fabbricazione israeliana”. Non è il solo a parlare dell’impiego di armi non convenzionali da parte dell’esercito azero. Anche l’Ong Halo Trust aveva denunciato l’utilizzo di bombe a grappolo da parte di Baku e inoltre lo stesso stato d’Israele ha confermato la vendita a Paesi non specificati di droni kamikaze che hanno un’autonomia di 600 miglia e sono imbottiti con 15 chili di esplosivo. Ma per comprendere il dramma del conflitto che ha provocato più di 200 morti in 4 giorni basta varcare la soglia del Paese fantasma di Talish. Per approfondire: Le tante sfide dell’Armenia L’enfasi marziale trasuda dalle parole di Sarghisian che poi si arresta, e da una feritoia indica le postazioni del nemico: ”Quelle che vedi laggiù, a 150 metri, sono le postazioni dei loro cecchini. I tiratori azeri ogni giorno sparano contro di noi. E sai perché i campi qua intorno sono tutti incolti? Perché Baku, se vede un contadino del Nagorno Karabakh lavorare nella sua terra, gli riserva un proiettile in fronte”. Prosegue a parlare, e mentre lo fa, accenna anche alla presenza dei miliziani dell’Isis tra le fila azere. È salmodiato in ogni dove, dagli uffici militari alle piazze dei borghi di montagna, il fatto che l’Azerbaijan ad aprile avesse nei suoi ranghi dei combattenti legati al Daesh. Prove concrete non ce ne sono, quello che c’è, invece, sono i video di un volontario armeno di 19 anni decapitato e sfregiato da militari azeri e foto di soldati e civili del Nagorno Karabakh mutilati. ”A Talish, e nei confronti dei nostri uomini caduti sul fronte, – spiega l’ufficiale – mercenari assoldati dall’Azerbaijan hanno commesso gli stessi orrori che i guerriglieri dello Stato Islamico compiono in Siria e in Iraq. Noi sappiamo che ci sono foreign fighters azeri che sono confluiti nel Daesh e crediamo che da Raqqa siano tornati per combattere qua contro di noi. Ma non abbiamo timore”. Il bilancio del conflitto di aprile ha visto in ogni caso il Nagorno Karabakh perdere parte della frontiera, inoltre sono emerse anche delle frizioni tra l’Armenia e Mosca, storica alleata di Yerevan, accusata ora di doppiogiochismo per la vendita di armi anche agli azeri. La vicinanza poi tra l’Azerbaijan e Israele e il riavvicinamento tra Baku e Teheran stanno mettendo sempre più in una posizione di isolamento il Nagorno Karabakh che adesso, alle spalle, ha una quanto mai fragile Armenia in piena crisi economica e politica e sconvolta dalle violenze in corso nella capitale. |
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