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Il controverso monumento alla Vittoria di Bolzano PDF Stampa E-mail
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Notizie - Cronache
Giovedì 04 Giugno 2015 21:05

UN MONUMENTO STRATTONATO DA NAZIONALISMI
Sopravvivenza a denti stretti per l’arco-tempio che sorge dal 1928 nel capoluogo altoatesino – Interpretato come “provocatorio” dalla componente germanofona locale, voleva celebrare dapprima il sacrificio di Cesare Battisti, poi la vittoria italiana nella Grande Guerra e l’avvento dominante fascista – Dopo anni di tira e molla, il Siegesdenkmal è stato inserito in un progetto di storicizzazione dei “relitti del Ventennio” tuttora presenti, rimarcando il loro “carattere totalitario” e lo stop a qualsiasi velleità di “revisionismo nostalgico”

Servizio e foto di Claudio Beccalossi 

Bolzano/Bozen – Ha sempre avuto una vita difficile il monumento alla Vittoria (Siegesdenkmal) nell’omonima piazza (Siegesplatz) di Bolzano/Bozen, a poca distanza dal ponte sul torrente Talvera/Talfer, generoso lotto dei cosiddetti “prati del Talvera” (Talferwiesen) che ingentiliscono di verde ben curato, giardini pubblici e percorsi ginnici soft tutta-natura gli argini che attraversano il capoluogo altoatesino.

Chiamato dalla componente tedesca della città (il 25,5%, stando al censimento del 2011) Fascistentempel (“Tempio fascista”), troneggia comunque, quasi per palese dispetto, come struttura marmorea rievocativa della vittoria italiana sugli Imperi Centrali, soprattutto sull’acerrimo nemico storico austro-ungarico. Progettato dall’architetto ed urbanista Marcello Piacentini  (Roma, 8 dicembre 1881 – Roma, 18 maggio 1960), oggi in fase di rivalutazione critica dopo essersi smaccatamente compromesso con il regime fascista nonostante il suo indiscutibile ruolo nell’architettura, pare aver avuto un padre… illegittimo nello stesso Benito Amilcare Andrea Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945), autore d’un supposto bozzetto “ispiratore”.

Fu eretto tra il 1926 ed il 1928 in un luogo simbolo (dove nel periodo austro-ungarico s’apriva il Tarfelpark, “parco del Talvera”) e come emblema dell’avvento dominante fascista, sferzante anticamera della neue Bozen (“nuova Bolzano”), che si voleva decisamente italiana e razionalista, in fase di costruzione ad ovest del torrente quasi spartiacque di ceppi linguistici. Il… “relitto fascista” (come la politica sudtirolese lo cita spesso) verte su un arco di trionfo dalle colonne scolpite con fasci littori, particolarmente indigesti ai locali di radice tedesca da generazioni e per tradizione.   

Uno degli errori più madornali commessi da ideatori e realizzatori fu quello d’erigere il manufatto dopo aver tolto di mezzo le “scomode” strutture preliminari del monumento in memoria dei Kaiserjäger (Kaiserjägerdenkmal) caduti a fine non ancora conclusa del primo conflitto mondiale, pensato ed iniziato in seguito alla battaglia di Caporetto (o dodicesima battaglia dell'Isonzo, in tedesco Schlacht von Karfreit o zwölfte Isonzoschlacht), scontro tra il Regio Esercito italiano e le truppe austro-ungariche e tedesche, mosso dalle ore 2:00 del 24 ottobre 1917, che causò la sconfitta ed il ritiro fino al fiume Piave dell’esercito comandato dal generale Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore sostituito l’8 novembre successivo da Armando Diaz. 

  
Il monumento alla Vittoria (Siegesdenkmal), a Bolzano/Bozen.




Il monumento ai Kaiserjäger caduti in guerra ancora in corso, costruito parzialmente nel 1917
e raso al suolo nel 1926 per lasciar spazio al monumento alla Vittoria.

L’omaggio ai Kaiserjäger deceduti sul campo rimase a mezz’aria alla fine della guerra, né carne e né pesce, nell’area predestinata davanti a quella che poi sarebbe stata occupata per innalzare il monumento alla Vittoria. Stando a John Foot (Londra, 8 novembre 1964), storico britannico specializzato in storia italiana, il lavoro dell’architetto Piacentini inquadrò al meglio la “visione nazionalista e fascista” della guerra e dell’antichità, con riferimenti retorici all’eroismo, al sacrificio, alla cosiddetta “bella morte”, ai “caduti per la patria” in contrapposizione a pacifismo e socialismo.

Il percorso propedeutico all’edificazione appare come una forzatura legittimata dagli eventi e dal potere.
Durante la conferenza di pace di Parigi (che si aprì il 18 gennaio 1919 e durò fino al 21 gennaio 1920 e che riunì i Paesi vincitori della guerra conclusasi l’anno precedente), l’Italia pretese l’applicazione del Patto di Londra (o Trattato di Londra) del 26 aprile 1915, trattato segreto stipulato dal governo italiano con rappresentanti della Triplice Intesa (alleanza politico-militare tra l’Impero britannico, la Terza Repubblica francese e l’Impero russo) in cui l’Italia assicurò l’entrata in guerra contro gli Imperi Centrali in cambio di concessioni territoriali. Ma, fatti i conti della serva, non venne ripagata come dovuto, dato che non si vide assegnare la Dalmazia e, per questo, si diffuse la definizione di “vittoria mutilata”. Invece, l’esigenza d’una frontiera naturale dislocata sullo spartiacque alpino trovò accoglienza, inglobando Venezia Tridentina e Venezia Giulia. Quanto deciso a Parigi venne ratificato dalla neo-costituita Repubblica austriaca nel trattato di pace di Saint-Germain-en-Laye, siglato il 10 settembre 1919. L’annessione fu formalizzata il 10 ottobre del 1920 ed il confine nazionale, di conseguenza, si spostò sullo spartiacque delle Alpi (valicandolo nella conca di San Candido e Tarvisio) ed assorbendo corpose minoranze germanofone. L’ex Tirolo meridionale, così, finì in mani italiane fino a Brennero.
La successiva salita al potere da parte di Mussolini (con la “marcia su Roma” del 28 ottobre 1922) contribuì a suggellare una sorta d’eccessivo “amor di Patria” che fece demolire vari monumenti celebrativi asburgici, tipo quello voluto dal borgomastro spiccatamente nazionalista Julius Perathoner con la volontà di sancire l’ortodossa germanità di Bozen, per far spazio alle raffigurazioni della vittoria in guerra e del fascismo dominante. L’inserimento del manufatto commemorativo venne deciso dalla Camera dei deputati il 10 febbraio 1926, con l’intenzione iniziale di Mussolini di dedicarlo a Cesare Battisti (Trento, 4 febbraio 1875 – Trento, 12 luglio 1916). Cioè, all’irredentista, patriota, giornalista, geografo, politico socialista e cittadino austriaco di nascita che fu pure deputato al Reichsrat, il Parlamento di Vienna e che, al verificarsi della guerra, si schierò a combattere con gli italiani venendo poi fatto prigioniero dai Welschtiroler Kaiserjäger, processato e condannato al capestro per alto tradimento. Per il conseguimento dello scopo vennero raccolti in breve i 3 milioni di lire necessari mentre il marmo fu donato da industriali lucchesi. Il 17 marzo dello stesso anno la specifica commissione (nominata dal Duce) approvò la proposta dell’ultranazionalista Ettore Tolomei sul luogo dove erigere il monumento e l’ideazione toccò all’architetto Piacentini che propose in giugno il suo progetto. Il disegno verteva su un arco retto da colonne decorate da fasci littori, consigliate (se non ordinate) da Mussolini.

Il 12 luglio 1926 (a dieci anni dall’esecuzione di Battisti) avvenne la cerimonia di posa della prima pietra, sotto gli occhi di re Vittorio Emanuele III, dei marescialli d’Italia Luigi Cadorna e Pietro Badoglio oltre che di ministri vari. Per l’occasione, comunque, furono tre (e non solo una) le pietre collocate in funzione simbolica della Grande Guerra: una dal monte Corno Battisti (dove venne catturato l’irredentista), la seconda dal monte San Michele (tra la frazione di San Martino del Carso del comune di Sagrado e Savogna d’Isonzo, in provincia di Gorizia, teatro di numerose battaglie) e l’altra dal monte Grappa (nelle prealpi Venete, tra il canale del Brenta, la valle del Piave ed il Feltrino, altrettanto sede di scontri decisivi nella Prima Guerra Mondiale). Pietre trattenute tra loro da una calce composta d’acqua del Piave, “Fiume Sacro alla Patria”, versata nell’impasto dal re in persona.
Fu al ministro alla Pubblica istruzione, Pietro Fedele, che si dovette il testo dell’iscrizione latina leggibile tuttora: “Hic Patriae fines siste signa hinc ceteros excolvimvs lingva legibvs artibvs” (“Qui [sono] i confini della Patria. Pianta le insegne. Da qui educammo gli altri [con la] alla lingua, [le leggi] al diritto, [le] alle arti”). Immaginaria frase di colloquio tra un legionario romano della X Legio di Druso (15 a. C.) ed un fante in combattimento sul Piave e che, dai più sanguigni nazionalisti di radice tedesca, fu interpretato come un imperativo di colonizzazione italiana. Sul retro del monumento appaiono tre medaglioni, opera dello scultore e compositore Pietro Canonica (Moncalieri, 1º marzo 1869 – Roma, 8 giugno 1959), che evocano la Nuova Italia, l’Aria ed il Fuoco. Nella parte sud stava la data d’edificazione, con l’immancabile riferimento all’”Era Fascista”, eliminata dopo la Seconda Guerra Mondiale: “Ben. Mussolini, Ital. Duce A. VI” (“Benito Mussolini, Duce d’Italia, Anno sesto [dell’Era Fascista]”).
La solenne inaugurazione avvenne il 12 luglio 1928 ma la moglie di Battisti, Ernesta Bittanti e la figlia Livia non vollero saperne delle intenzioni di propaganda di regime tramite il loro congiunto e non parteciparono nemmeno all’evento. Mussolini decise allora d’intestare l’opera alla Vittoria, lasciandovi all’interno i busti scultorei di Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa, lavori dello scultore Adolfo Wildt (Milano, 1º marzo 1868 – Milano, 12 marzo 1931). Alla cerimonia, svoltasi secondo impeccabile matrice fascista, prese parte ancora il re Vittorio Emanuele III, arrivato alle ore 8.30 a Bolzano con il convoglio reale assieme al duca d’Aosta ed al duca degli Abruzzi, a Costanzo Ciano, Italo Balbo, Giovanni Giuriati. Nello stesso giorno la controparte tedesca organizzò sul monte Isel, ad Innsbruck, una manifestazione di protesta contro il monumento alla quale parteciparono circa 10mila persone, sudtirolesi compresi.

Passata attraverso la sfuriata della Seconda Guerra Mondiale e l’ancor più lunga “stagione” del estremismo etnico armato al grido dapprima di los von Rom, “via da Roma” e poi di los von Trient, “via da Trento” (il tragico bilancio di 32 anni di terrorismo in Alto Adige, tra il 20 settembre del 1956 ed il 30 ottobre del 1988, registrò ben 361 attentati con esplosivi, raffiche di mitra, mine che causarono 21 morti, di cui 15 appartenenti alle forze dell’ordine e 2 normali cittadini, oltre a 4 eversivi uccisi dagli ordigni che stavano preparando ed a 57 feriti, 24 in divisa e 33 persone coinvolte), l’opera dell’architetto Piacentini ha dovuto vedersela anche con quanti, dell’”ovvia” etnia tedesca, volevano “correggerlo”, demolirlo o spostarlo.
Il politico, pacifista e scrittore Alexander Langer (Vipiteno/Sterzing, 22 febbraio 1946 – Firenze, 3 luglio 1995) si diede da fare sullo spinoso tema per un paio di volte, dapprima nel 1968, all’epoca in cui, da pacifista convinto, alzò la voce per protestare contro le annuali celebrazioni del 4 novembre presso il Siegesdenkmal e nel 1979, da consigliere provinciale della Nuova Sinistra/Neue Linke, quando propose di trasformare l’arco in “un segno di monito e di memoria autocritica” come già aveva chiesto Livia Battisti, figlia dell’irredentista Cesare. Nel 1977 i deputati di Südtiroler Volkspartei, Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano ed una frangia di indipendenti, presentarono uno specifico disegno di legge mirante a sradicare da Bolzano qualsiasi elemento architettonico che, in qualche maniera, fosse collegato al fascismo ma, buttato l’amo forse semplicemente propagandistico, a quell’iniziativa seguirono bocche cucite ed un niente di fatto.
Il presunto schiaffo all’entità germanofona primigenia da parte del monumento, comunque, non venne meno col passare degli anni ed oggi solo rappresentanze politiche di destra si radunano al suo cospetto per la commemorazione del 4 novembre mentre già dal 1997 le Forze Armate, per non creare fastidi e tensioni, evitano di partecipare alla manifestazione avendo ceduto palesemente (e forse impropriamente, calandosi le braghe alla solita maniera supina italiana) il passo al contronazionalismo di matrice tedesca. Bisognoso, nonostante le persistenti polemiche, di cure conservative, il reietto Faschistentempel è stato sottoposto, nel giugno 1990, ad una prima fase di restauro ad opera del ministero dei Beni culturali che ha “girato” la patata bollente alla Soprintendenza di Verona, con un finanziamento statale di 400 milioni di lire. L’operazione, tanto per non cambiare, fece fioccare proteste, specialmente di provenienza Schützen (nel passato milizia volontaria asburgica con scopi di difesa territoriale ed oggi compagine folcloristica con qualche accento sciovinista) e relativa levata di scudi della controparte di destra.
Tentando di chiudere definitivamente i conti con la storia, la giunta comunale di Bolzano, nel dicembre 2001, cambiò il nome dell’area occupata dal Siegesdenkmal da piazza delle Vittoria (Siegesplatz) a piazza della Pace (Friedensplatz) ma nell’ottobre dell’anno dopo, a vittoria ottenuta ad un referendum popolare voluto dalle compagini di destra, tornò al suo posto la precedente denominazione, con gli avversi inveleniti che accettarono a denti stretti il fatto facendo però precisare, sulla targa toponomastica di piazza della Vittoria, la precisazione “già della Pace” (sic). Il comune di Bolzano, comunque,  non smise d’attizzare il fuoco della difficile convivenza dell’arco celebrativo con la città e nel febbraio 2005 fece apporre delle targhe di contestualizzazione ad una cinquantina di metri dal monumento stesso, in seguito all’opposizione del ministero della Cultura alla loro sistemazione nelle immediate vicinanze della struttura contestata che diede retta alle vibranti opposizioni dei soliti partiti di destra. Redatte in quattro lingue (italiano, tedesco, ladino, inglese), precisano perentoriamente: “Questo monumento fu eretto durante il regime fascista per celebrare la vittoria dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Essa comportò anche la divisione del Tirolo e la separazione della popolazione di questa terra dalla madrepatria austriaca. La Città di Bolzano, libera e democratica, condanna le divisioni e le discriminazioni del passato e ogni forma di nazionalismo e si impegna con spirito europeo a promuovere la cultura della pace e della fratellanza”. 

Altri lavori di restauro conservativo furono avviati nel novembre 2009, sempre a cura della Soprintendenza di Verona e, ancora, scattò puntuale il dissenso. Il 1° dicembre seguente, il consiglio provinciale di Bolzano emise una mozione di forte critica, bollando gli interventi conservativi di tipo revisionista e non conforme al (cosiddetto) spirito europeo. Nello stesso tempo, l’assessorato provinciale alla Cultura approfittò dell’occasione per ribadire il bisogno di “trasformare il monumento in una testimonianza contro il fascismo”. In linea con quest’esigenza l’Archivio storico di Bolzano, il 21 maggio 2010, lanciò un richiamo per affossare definitivamente nella storia, devitalizzare e subordinare ad una visione museale i reperti monumentali del periodo fascista partendo proprio dal Siegesdenkmal, annoso pugno in un occhio che mai è riuscito a farsi considerare politically correct.
Il progetto di rinnovamento, per un passato comunque da condividere, venne definito “Bolzano città di due dittature”, con chiari riferimenti al fascismo ed al nazismo che interferirono pesantemente, nella realtà rifiutato come abietto il primo ed accettato come vivifico il secondo, sull’area altoatesina. Un effetto gradito alla componente tedesca fu la decisione del ministro alla Cultura del momento, Sandro Bondi, che il 26 gennaio 2011 firmò un impegno ufficiale, destinato alla Südtiroler Volkspartei e poi furiosamente contestato dai media bolzanini di lingua italiana, per “storicizzare i monumenti dell’era fascista, monumento alla Vittoria per primo”, bloccando il restauro in corso d’opera. Un ulteriore affon-do avvenne con un appello, pubblicato il 5 febbraio 2011 da storici di lingua italiana e tedesca di diverse nazionalità (connessi per la maggior parte all’associazione Geschichte und Region, “Storia e regione”), per la storicizzazione definitiva delle testimonianze fasciste, senza distruzioni o rimozioni e nell’ottica della loro etichettatura totalitaria e dell’impossibilità di qualsiasi strumentalizzazione, pure come mero revisionismo nostalgico.

Nel gennaio 2012, infine, fu approvata la realizzazione d’un itinerario espositivo negli spazi sottostanti al Faschistentempel in grado d’inquadrare e raccontare la retrospettiva dell’arco e gli eventi bolzanini dal 1918 al 1945 sotto i talloni del fascismo e del nazismo (“BZ ’18-’45: un monumento, una città, due dittature”, con relativo sito su Internet: http://www.monumentoallavittoria.com).
L’apertura ufficiale del percorso documentativo avvenne il 21 luglio 2014, alla presenza del ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Dario Franceschini. E con i contestati “marmi Dof (Denominazione d’origine fascista)” che certo ammiccarono per tanto e continuo interesse generale suscitato nel tempo.
Del resto, non è una strategia mediatica e di marketing vincente quella che fa menzionare un dato soggetto o prodotto, buono o cattivo che possa essere? E non è tuttora ripetutamente citato il noto aforisma coniato da Oscar Wilde (o, meglio, Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, Dublino, 16 ottobre 1854 – Parigi, 30 novembre 1900, scrittore, drammaturgo, giornalista, saggista e poeta), “non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli!”, traduzione raffazzonata dell’originale in in-glese “there is only one thing in the world that is worse than being talked about and that is not being talked about” (“c’è al mondo una sola cosa peggiore del far parlare di sé, il non far parlare di sé”)? Co-me nel caso del famigerato e “scandaloso” Siegesdenkmal di Bolzano…

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