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IL VESCOVO DI TRIPOLI “PRONTO PER IL MARTIRIO” PDF Stampa E-mail
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Notizie - Opinioni
Venerdì 27 Febbraio 2015 15:06

Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli s’intestardisce a restare in Libia nonostante l’Isis stragista “in casa” – In un’intervista-scoop del novembre 1985, la sua discussa opinione sul Raʾīs Gheddafi, rimasta salda anche dopo essere stato privato della libertà in piena crisi libico-americana dell’aprile 1986

DOCUMENTO ESCLUSIVO!

  Il francescano mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, in Libia.

Così, mons. Giovanni Innocenzo Martinelli dell’Ordine dei Frati Minori (francescani) e vicario apostolico di Tripoli, è tra i pochi italiani, se non l’unico, ripetutamente invitati a lasciare l’ormai simulacro di Stato e rimasti cocciutamente nel Paese nordafricano alle prese con una sanguinosa guerra civile (più che altro tribale) nel post Muʿammar Muḥammad Abū Minyar ʿAbd al-Salām al-Qadhdhāfī, noto semplicemente come Mu’ammar Gheddafi (Qasr Abu Hadi, 7 giugno 1942 – Sirte, 20 ottobre 2011). Alla cruenta lotta intestina in Libia s’è aggiunta l’avanzata dei terroristi islamisti dell’Isis, serissimo spauracchio non solo locale ma internazionale per l’incisività macina terreno dimostrata con plateale efferatezza e studiato propagandismo.

   
L’amabile sorriso di mons. Martinelli.

Mentre anche la stessa Ambasciata d’Italia a Tripoli sospendeva le sue attività a causa del peggioramento delle condizioni di sicurezza ed ambasciatore e personale venivano temporaneamente rimpatriati via mare assieme ad una sessantina di connazionali, i media diffondevano la decisa dichiarazione di mons. Martinelli: «Questo è il culmine della mia testimonianza. E se la fine dev’essere testimoniata col mio sangue, lo farò». Sottolineava ancor più: «In chiesa sono venuti a dirmi che devo morire. Ma io voglio che si sappia che padre Martinelli sta bene e che la sua missione potrebbe arrivare al termine. Ho visto delle teste tagliate ed ho pensato che anch’io potrei fare quella fine. E se Dio vorrà che quel termine sia la mia testa tagliata, così sarà. Anche se Dio non cerca teste mozzate, ma altre cose in un uomo». Rincarava poi in un’intervista telefonica: «Bisogna farsi coraggio, la Libia è un Paese che va amato. Occorre capirlo e saperlo incontrare. Dobbiamo trovare il modo di far risorgere questa nazione. Non con la forza ma col dialogo che è mancato per troppo tempo. Credo sia il momento più difficile di sempre. Con Gheddafi avevamo anche scambi d’amicizia. Era una persona intelligente, anche se un po’ matto. Però, ecco, non ci faceva paura».

 

Mons. Martinelli col Papa emerito Benedetto XVI (al secolo Joseph Aloisius Ratzinger).
 
  La sua fermezza nel restare (quasi una “ricerca”, una “speranza”, più che una “vocazione”, al martirio), sembra un disco rotto già sentito nel precipitare degli eventi del febbraio 2011, quando replicava a chi spingeva perché se ne andasse al sicuro in Italia con un perentorio «Non lascerò mai la Libia finché avrò respiro. E dove vado? Questa è la mia Chiesa. Me ne andrò solo se mi cacciano».

  La prefettura apostolica di Tripoli, eretta nel 1630, fu elevata nel 1894 a vicariato apostolico, denominandosi vicariato apostolico della Libia. È un’entità della Chiesa cattolica soggetta direttamente alla Santa Sede. Alla fine del 2010 raggrumava circa 150mila battezzati, cioè il 2,7% dei 5.500.000 abitanti. La diocesi include Tripoli ed ha una sola parrocchia, con la chiesa di San Francesco. Nel comprensorio, poi, sorgono 20 sedi di culto o cappelle mentre la vecchia cattedrale dedicata al Sacro Cuore di Gesù, edificata tra il 1923 ed il 1928, nel 1970 (poco tempo dopo il colpo di Stato militare che il 1° settembre 1969 causò la caduta della monarchia e portò al potere Gheddafi) venne forzatamente trasformata in moschea.

 Mons. Martinelli ama menzionare San Francesco anche in questi tragici avvenimenti: «Lo aveva detto: chi vuole andare tra i saraceni deve lasciare tutto». Saraceni poi musulmani. Anche integralisti. Come quelli che, incontrando il francescano in saio per le strade di Tripoli, hanno avuto la dabbenaggine di fermarlo e di rinfacciargli d’essere “contro l’Islam”. Proprio lui, nato in terra libica, per la precisione ad Al Khaḑrā', vicino a Tarhunah, il 5 febbraio 1942 da genitori d’origine abruzzese, Vincenzo e Maria. La famiglia tornò in Italia nel 1953 e si stabilì a Pozzo di San Giovanni Lupatoto, in provincia di Verona, dove Giovanni, dopo essere stato consacrato sacerdote il 28 luglio 1967, officiò la sua prima messa.
Ma la nostalgia per il nord Africa premeva prepotentemente e don Martinelli si preparò al “gran ritorno” in Libia, voluto definitivo con tutto il cuore, ottenendo la licenza in arabo ed islamologia presso il Pontificio istituto di Studi arabi. Raggiunse Tripoli nel 1971 per ricoprire l’incarico di vicario per la Cirenaica e Bengasi (completamente sguarnita di preti cattolici) del vescovo della capitale libica d’allora, mons. Guido Attilio Previtali (in carica dal 26 giugno 1969 fino alle sue dimissioni del 3 maggio 1985). Fu vicario fino al 18 luglio 1985, quando gli venne comunicata a Bengasi la sua nomina a nuovo vescovo di Tripoli, con consacrazione avvenuta il 4 ottobre successivo alla presenza di esponenti delle comunità cristiane, di autorità locali, degli arcivescovi di Tangeri e di Malta, del nunzio apostolico di Algeri. In quella data, divenne vicario apostolico di Tripoli e vescovo di Tabuda.
Certo confidava nell’amore per la sua terra natia oltre all’innata disponibilità missionaria quale “chioccia” della sparuta minoranza cattolica ed alle braccia spalancate nei confronti dei musulmani. Non s’immaginava che la provvidenza od il destino o la storia, che dir si voglia, avevano in serbo prove dure per lui. Come quando, nel pieno della crisi del 1986 tra la Libia e gli Stati Uniti, fu posto in stato di fermo o d’arresto (in ogni caso, privazione della libertà) assieme ad altri quattro religiosi a Bengasi, il 13 aprile, venendo poi liberato sei giorni dopo, non prima d’aver messo in apprensione quanti lo conoscevano non sapendo esattamente dove fosse detenuto e, soprattutto, perché e per quanto tempo.
 L’ennesima ostinazione di mons. Martinelli a non indietreggiare anche di fronte all’incalzare dell’Isis stragista e decapitatore mi riporta personali ricordi di quando, domenica 17 novembre 1985, ebbi l’opportunità d’intervistarlo distogliendolo brevemente dall’incontro conviviale con parenti ed amici dopo la messa celebrata a Pozzo di San Giovanni Lupatoto (Verona), dov’era tornato per un paio di giorni dopo la recente proclamazione ufficiale a vescovo di Tripoli.
L’occasione servì al prelato a sfoderare con la sua cerchia il dialetto veronese, mai scordato. Assecondò il mio far domande intervallato da sorsate di caffè ma contenne amabilmente il mio incalzare nel “provocarlo” per sue opinioni riguardo a Gheddafi, nell’immaginario collettivo del tempo non certo uno… stinco di santo.
                               

                                              
17 novembre 1985: due momenti dell’intervista di Claudio Beccalossi a mons. Martinelli,
neo vescovo di Tripoli.
(Foto di Renato Malaffo)

I suoi commenti diplomaticamente abbottonati (ma non troppo) mi permisero di redigere un “pezzo” per il quotidiano “L’Arena” che, impaginato e titolato dal capo redattore in forza all’epoca (il noto giornalista e scrittore Stefano Lorenzetto, poi vice direttore vicario de “il Giornale”), fece scalpore per il parere decisamente inconsueto dell’autorevole fonte riguardo al Raʾīs di Tripoli. L’articolo uscì domenica 24 novembre 1985 con l’indovinato titolo “Un soldato di Cristo per il colonnello di Allah” ed ebbe perfino l’”onore” di locandine all’esterno delle edicole, “strillone” con il richiamo “Parla il veronese vescovo di Tripoli: «Gheddafi? Non è come credete voi…». E, in effetti, mons. Martinelli mi fornì una versione “alternativa” alla vox populi imperante, poi rimbalzata su altri canali informativi. 
Ecco alcuni eloquenti stralci: “Attorno alla figura di quest’uomo sono stati creati miti non veri, pregiudizi, illazioni che lo hanno bollato come individuo negativo e basta”. “Sia in Gheddafi che in altri membri del governo libico ho riscontrato un’aperta disponibilità e un rispetto vicendevoli, che sono alla base della convivenza delle religioni musulmana e cattolica. Le richieste che presentiamo vengono soddisfatte senza problemi, i permessi e i visti d’ingresso per i nostri parenti sono accordati senza eccessive difficoltà”. “In questi ultimi anni, la Libia ha compiuto passi da gigante in ogni settore tecnologico ed assistenziale e la sanità gode dello sviluppo portato avanti con tanta volontà: gli ospedali sono un po’ dappertutto e il servizio medico è completamente gratuito. L’Italia avrebbe molto da imparare da questi retrogradi e guerrafondai libici…”.
                           

                            
L’articolo-scoop pubblicato sul quotidiano “L’Arena” di Verona il 24 novembre 1985.

Visioni soggettive a parte (comunque sgusciate da una realtà vissuta “sul campo”), mentre ci stavamo congedando s’avvicinò una francescana missionaria piemontese collaboratrice da più di sei anni di mons. Martinelli. Mi parlò dei meriti del neo vescovo nella riapertura di chiese e cappelle prima sprangate al culto. Effetto d’una paziente personalità toccata dalla Grazia che, forse in quegli anni, riuscì a scalfire perfino il duro Gheddafi, avviato verso lo stesso macello perpetrato ora dai massacratori del Jihād sbucati al balbettante (ed un tantino ipocrita e con la coscienza sporca) orizzonte dell’Occidente.

               
Claudio Beccalossi

 

 

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