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Una rivelazione sulla tragica morte d’un prete veronese 70 anni fa PDF Stampa E-mail
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Notizie - Cronache
Mercoledì 14 Gennaio 2015 22:00

«VIDI DON DOMENICO MERCANTE PRIMA DELLA SUA FINE.
VENNE FUCILATO DA SS OLANDESI PERCHÈ
TROVATO IN POSSESSO D’UNA RIVOLTELLA!»

La testimonianza di Ruggero Rossi, rimasta finora inedita, intervistato sull’argomento nel 1991 –
Scorse il prete nel cortile dell’asilo “Malfatti”, sede del Comando SS ad Ala, nel Trentino,
assieme ad un soldato definito “disertore della polizia trentina”

Servizio e foto di Claudio Beccalossi

Questa rievocazione di un’importante ed inedita testimonianza rimasta senza seguito è, da parte mia, l’atto dovuto con deprecabile ritardo a chi, a suo tempo, mi contattò per un appuntamento nel quale, poi, mi rivelò retroscena nuovi ed inquietanti su quello che, tuttora, è considerato il martirio di don Domenico Mercante (parroco di Giazza, uno degli ultimi baluardi della tradizione e dell’idioma cimbri nell’alta val d’Illasi, nella Lessinia veronese) e dell’SS-Rottenführer (caporalmaggiore) Leonardo Dallasega, trucidati da nazisti in cerca di scampo ad Ala, nel Trentino, il 27 aprile 1945.

  

La tomba di don Domenico Mercante nel cimitero di Giazza (Verona).

 
   


La storia dell’uccisione del prete, che certo voleva evitare spargimenti di sangue tra tedeschi in ritirata e partigiani con coinvolgimenti della popolazione, assieme al trentino inquadrato nelle Waffen SS, che s’era rifiutato di far parte del plotone d’esecuzione che doveva sopprimere il sacerdote, è ampiamente risaputa. Ma non è conosciuto, invece, il mio cosiddetto “atto dovuto”: gli appunti messi insieme in quella conversazione del 1991 con Ruggero Rossi (questo il nome della persona che mi telefonò sapendo che m’interessavo a livello giornalistico anche di ricostruzioni storiche il più possibile inedite) sono rimasti inesorabilmente sepolti in una vecchia ed oggi consunta agenda zeppa di note su vari altri argomenti, allora d’attualità veronese.

 

Stazioni della Via Crucis di don Mercante sui luoghi che lo videro arrancare prigioniero e maltrattato: “Sanguine tuo redemisti nos. In memoria del parroco di Giazza don Domenico Mercante e di tutti i morti della montagna. Settembre 1964”.
 
Il rendez-vous con Rossi ebbe luogo giovedì 31 ottobre 1991, alle ore 11, presso la Trattoria “Galeazzi”, in vicolo Disciplina, nel centro di Verona. Come promemoria, annotai quale scopo dell’incontro “il giallo sulla morte di don Mercante: ucciso dai nazisti o da un bombardamento alleato alla stazione di Ala?” che riassumeva quanto m’era stato anticipato al telefono dallo stesso Rossi. Pensionato, quest’ultimo, allora di 72 anni e che è poi deceduto il 18 agosto 1993, purtroppo senza che avessimo nuove opportunità di dialogo, aggiuntivo od esplicativo, su ciò che m’aveva riferito.
A proposito di quella lunga conversazione del 31 ottobre 1991, ricordo l’odore stagnante di vino e di fumo nella trattoria, la voglia di raccontare del mio interlocutore, l’abbondanza dei fatti espressi di getto e che faticai a riportare sull’agenda.
Rossi iniziò il suo racconto precisando che, prima del pensionamento, aveva lavorato come impiegato tecnico di prima categoria. Era nato nelle case popolari della borgata di Porto San Pancrazio. Mario, il padre, era un ferroviere (milite ferroviario) mentre la madre Ada Alpestri aveva fatto da madrina al labaro della 40^ Legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. I genitori di Ruggero si sposarono nel 1918 ad Ancona. Sua madre, infatti, era anconetana ed aveva assistito alle note “giornate rosse d’Ancona”. Il padre tornava, invece, dalla Prima Guerra Mondiale.
Il memoriale di guerra (la “sua” guerra) di Rossi contò uno dei principali sussulti con l’arrivo a Verona il 6 settembre 1943, dopo il ripiegamento verso il continente dallo Stretto di Messina con le truppe dell’Asse incalzate dagli Alleati.
«L’8 settembre mio padre, milite ferroviario, mi disse di nascondermi – rivangò Ruggero – perché i nazisti cercavano tutti gli uomini. Per trovarmi una sistemazione sicura, mio padre scrisse all’ingegner Aurelio Aureli che era titolare dell’Organizzazione Lavori Specializzati (o Specialistici), in via Buozzi 2, a Roma. L’ingegnere rispose dicendo che avrei dovuto trovarmi ad un appuntamento a Borgo San Lorenzo, a Firenze, con un suo incaricato. Cominciai a lavorare all’OLS per i tedeschi con sede di lavoro a Dicomano (Firenze). Prima ebbi l’incarico di rilevare lo stato d’avanzamento delle trincee e, poi, mi passarono in un ufficio. Intanto, durante il bombardamento aereo alleato su Verona del 28 gennaio 1944, venne distrutta la casa dei miei genitori e mia sorella Reginalda, allora di 8 anni, riuscì miracolosamente a venirne fuori salva».
«Nel corso del mio lavoro d’ufficio, verso marzo od aprile del ’44, andai in contrasto per vari motivi con il direttore amministrativo che riferì della questione al comandante tedesco a cui, mentre tirava fuori la pistola per minacciarmi, diedi un pugno. Poi, scappai fino a Pontassieve, presi un treno per Firenze e da quella città mi diressi in provincia di Piacenza evitando Verona perché, supposi, m’avrebbero cercato a casa. A Piacenza avevo la fidanzata che mi diede dei soldi grazie ai quali andai verso Pizzighettone, in provincia di Cremona, dov’ero stato in precedenza ed in cui abitava la vedova d’un mio commilitone morto in Sicilia. La signora parlò con il comandante delle carceri militari che mi procurò un lavoro là dentro per circa un mese. Rimasi fino a quando un maresciallo dei carabinieri m’invitò ad andarmene perché aveva ricevuto l’ordine di catturare i renitenti alla leva».
«Non mi rimase che scappare ancora, stavolta verso Verona e la casa in corso Vittorio Emanuele (l’odierno corso Porta Nuova) dove aveva trovato alloggio la mia famiglia. Rammento che dal balcone dell’abitazione dei miei familiari si poteva passare ad altri appartamenti per fuggire in caso di pericolo. E che, per guadagnare dei soldi per mantenermi, prendevo un carretto tirato a mano per poi andare anche in mezzo ai tedeschi di stanza per far loro qualche lavoro. In quella che oggi si chiama via Città di Nîmes c’era il deposito bagagli delle Ferrovie. Da lì portavo i bagagli, anche dei militari nazisti, in stazione e per questo venivo pagato. Un dipendente dell’OLS che conosceva il vecchio indirizzo dei miei riuscì a risalire al nuovo e venne a casa per offrirmi un lavoro ad Ala, nel Trentino. Io ero addetto alle misurazioni, ai lavori di fortificazione dal monte Baldo ai Lessini. La sede amministrativa era a Ronchi d’Ala mentre quella operativa si trovava a Malga Pianezza, in val di Ronchi».
«Nel dicembre 1944 il geometra Tomio di Rovereto, un dipendente della ditta per cui lavoravo, venne prelevato dai carabinieri con l’accusa di spionaggio. Avevano beccato alla frontiera con la Svizzera, più precisamente, un incaricato di Tomio che avrebbe dovuto portare i piani di difesa della zona oltre confine. I carabinieri ed i tedeschi indagarono sull’episodio anche nel mio ambito lavorativo, dato che quelle carte erano in possesso pure del geometra Martinelli di Avio e mio. I tedeschi diffidavano di me perché non scendevo mai in paese per paura dei bombardamenti aerei. Tomio, in seguito, fu portato in carcere a Trento e venne sottoposto al giudizio d’un Tribunale speciale per poi uscire con la Liberazione. Incontrai pure i partigiani che venivano a controllare le fortificazioni. Ricordo un certo Paolo Paganini della Brigata “Avesani”. Le persone, in genere, mi conoscevano come “figlio di fascista”».
«A Malga Pianezza, un giorno, mi scontrai con una tal Maria – raccontò Rossi sorridendo – che aveva l’abitudine di proferire “porco d’un italiano” come intercalare. Le dissi che se avesse ripetuto quell’ingiuria le avrei rifilato un sonoro ceffone e lei, per tutta risposta, si recò dal comandante Schmidt di Monaco di Baviera delle SA (Sturmabteilung, “camicie brune”), a riferire l’episodio. Sulla base di altri suoi sospetti, Schmidt, assieme ad un’altra SA, venne a prendermi per portarmi al Comando SS (Schutzstaffeln, “squadre di protezione”) d’Ala che aveva sede presso l’asilo “Malfatti”. All’interno trovai altri 119 prigionieri, tutti italiani meno 3, un filippino e due russi. La maggior parte degli italiani, tra cui vari comunisti dei GAP (Gruppi d’azione patriottica), proveniva dalle carceri di Milano. Il compito assegnato a tutta quest’umanità rinchiusa era quello d’andare a bonificare il terreno dalle bombe inesplose ed a scavare trincee. Le pietose donne d’Ala, che vanno ancor oggi ringraziate, ci davano del cibo e del tabacco di nascosto, mentre eravamo nelle trincee. Voglio citare, specialmente, la signora Largaioli».
«Il mio lavoro coatto come prigioniero iniziò nel gennaio 1945. – precisò ulteriormente Ruggero Rossi – In un bombardamento aereo, rimase ferito un appartenente alle SS che venne portato per le cure all’ospedale d’Ala. Gli attacchi aerei erano pressoché giornalieri, intenzionati ad interrompere la linea ferroviaria. Il 26 od il 27 aprile del ’45 fu condotto nel cortile dell’asilo “Malfatti” don Domenico Mercante assieme ad un soldato nazista che dicevano fosse un disertore della polizia trentina. Le SS, per la maggior parte olandesi, inveivano contro il prete, malridotto e con i segni di percosse. Aveva la veste sporca, strappata, la faccia tumefatta. L’accusavano d’aver detenuto illegalmente una rivoltella».

«Ad una mia richiesta di spiegazioni, un interprete mi disse che, durante la sua perquisizione, avevano trovato una pistola in una tasca del sacerdote, in violazione all’”Editto Kesserling”. Mi riferirono che, a Giazza, don Mercante s’era rivolto ad un reparto di contraerea “Hermann Göring” che risaliva in fuga la val d’Illasi verso Revolto ed Ala. Ammonì i tedeschi affermando che sarebbero stati liberi di proseguire se avessero deposto le armi. Ed ingigantì le sue minacce informando che, attorno, erano appostati partigiani pronti a far fuoco. I nazisti, invece d’intimorirsi, lo fecero prigioniero, lo perquisirono, gli scoprirono la pistola ed allora decisero di portarselo dietro come ostaggio. Lo presero a calci per tutto il percorso, da Giazza ad Ala».
«Le SS olandesi, dirette da Ala verso Rovereto, lasciarono le consegne a quelli dell’”Hermann Göring”, appena arrivati. Le SS ci chiamarono per farci caricare i bagagli nelle auto. Un militare della contraerea andò dentro un ufficio lasciandoci senza custodia. Ne approfittammo subito e scappammo verso i Ronchi. Assieme a me se la diedero a gambe pure tre dei GAP che dopo non rividi mai più. Poi, siamo risaliti agli Schincheri dove c’erano i Padri Camilliani. Uno di questi, d’origine veronese, ci nascose in un pagliaio dove stavano rintanati anche tre disertori della polizia trentina. Meno male, perché i peggiori nemici degli italiani, allora, erano i sudtirolesi. Il mattino dopo raggiungemmo il Passo Revolto e, in seguito, vedemmo venirci incontro dei ragazzi di Ala intenzionati a chiamare i partigiani perché occupassero il paese».
«E don Mercante? – si domandò e si rispose da solo lo stesso Rossi – Può darsi che qualcuno si sia rifiutato di fucilarlo, forse un appartenente alla polizia trentina ma non una SS. Durante la mia permanenza ad Ala le SS presenti erano quasi tutte olandesi».
«Don Mercante, a parere mio, è stato sicuramente un eroe incosciente ed ingenuo. Probabilmente voleva salvare la stessa vita dei soldati tedeschi in caso d’imboscata da parte dei partigiani. E certo desiderava preservare questi ultimi e la gente del posto, probabili vittime della reazione nazista».
«A Revolto un maestro mi chiese del prete ed io risposi che avevo sentito dire che era stato fucilato. Io non l’avevo visto fare quella fine ma le chiacchiere sulla sua morte già giravano. Di sicuro, comunque, stando a mie valutazioni, furono le SS olandesi a farlo fuori. Da Revolto mi portarono a Verona su una jeep e potei così riabbracciare i miei che, nel frattempo, s’erano trasferiti ancora, dopo l’ennesimo bombardamento, in via S. Alessio… Solo allora mi resi conto che, per me, finalmente, la guerra era finita…»        

 

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