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Le idi di marzo. PDF Stampa E-mail
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Notizie - Italia
Lunedì 31 Marzo 2014 11:31

Le idi di marzo si stanno ripetendo oltre duemila anni dopo. Per questo la riforma che abolisce il Sena­to così come lo conosciamo oggi, decisa nell’incontro tra Renzi e Berlusconi, non si farà.

Alessandro Sallusti - ilgiornale.it

Era marzo a Roma quando un gruppo di senatori, circa sessanta narrano gli storici, mise in atto il complotto che portò alla morte di Giulio Cesare, divenuto troppo potente per i custodi della Repubblica.


Le idi di marzo, appunto, si stanno ripetendo oltre duemila anni dopo. E, come allora, tra i complottisti si mischiano paure di tirannia, invidie e gelosie nei confronti dell'uomo vincente e amato dal popolo.

Per questo la riforma che abolisce il Senato così come lo conosciamo oggi, decisa nell'incontro tra Renzi e Berlusconi, non si deve fare. Lo ha detto chiaro il presidente dei senatori Grasso (dando probabilmente voce al pensiero di Napolitano) in un'intervista pubblicata ieri da La Repubblica subito sottoscritta da oltre venti senatori della sinistra e sulla quale converge una strana maggioranza che va da Grillo a Vendola. Proprio come il Cesare dell'antica Roma, ieri Renzi ha replicato stizzito: «Voi difendete solo lo status quo», lasciando intendere che oggi il governo varerà comunque il disegno di legge per l'abolizione. Che rimarrà carta straccia fino all'approvazione dei due rami del Parlamento. Cioè, temo, per sempre.

Ora Renzi è davvero in un vicolo che rischia di diventare a fondo cieco. Non può fare marcia indietro perché - per rimanere nella metafora cesariana - il suo «il dado è tratto» lo pronunciò mesi fa quando, forte della vittoria alle primarie, superò spavaldo il Rubicone del governo Letta. Indietro non si torna, ma andare avanti è ora davvero difficile. Non una delle cose promesse è andata in porto, né è nelle vicinanze. Ha forse un solo modo, il premier, per non cadere definitivamente nella palude. Ripartire con decisione dal patto con Berlusconi che gli diede la forza di inchiodare il suo partito alla svolta riformista. Tradire anche quell'accordo significa condannarsi all'isolamento. Proprio quello che accadde a Giulio Cesare. Da lì alla pugnalata dei propri senatori, insegna la storia, il passo è breve.
 

 

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